A proposito di Davis (e dei Coen)

 A proposito del film dei Coen, perché in fin dell'opera è così che l'abbiamo sentito pubblicizzato ovunque (e non è un caso), se vi è piaciuto, vi prego di smettere di leggere adesso. Ci salutiamo e ci risentiamo al prossimo film.

Bene, ho fatto il mio dovere di ospite, ma rilancio. Il film dei Coen, che per altro ha anche un bel titolo, è un film brutto. Il protagonista è un omuncolo che non ha alcun tipo di spinta verso qualcosa. Il perdente peggiore, di quelli che non riescono nemmeno a lamentarsi (forse perché sanno di essere destinati al fallimento?). È un personaggio che giudica gli altri con una sufficienza meschina senza poi riuscire a raggiungere ciò che gli altri agguantano con un po' di sacrificio. A me piace l'antieroe, ma questo è davvero piccolo. Se poi lo si circonda di persone grottesche (le due cene dai Gorfein) il ritratto è completo. Il fatto che non abbia nemmeno la minima spinta per la sua arte mi fa star male.

Gli altri personaggi, o sono grotteschi o sono ridicoli (la linea grigia che li separa è sottile). L'unico bel personaggio è il jazzista eroinomane. Il solo fatto di parteggiare per lui durante il viaggio in macchina è sintomo evidente del fallimento del protagonista. Ma non è ancora arrivato il peggio.

Al film manca anche una trama. Sì certo, il tecnicismo della trama circolare è lodevole, ma ne parliamo in coda. Mi correggo. La trama c'è, manca la storia. È un continuo trascinarsi da un divano all'altro in una specie di tentativo alla Bukowski triste e stremato. È un ciclico ricadere nei propri errori e fallimenti fino alla fine. Ma ce n'è ancora.

Il film è pretestuoso. Ogni volta che al protagonista succede qualcosa si vede lo zampino di uno scrittore stronzo, pronto solo a mettere il protagonista in difficoltà. Protagonista che non reagisce e non agisce nemmeno per sogno. E quindi il rendergli la vita misera non è nient'altro che un brutto esercizio di stile. Coronato dalla trama circolare, l'unica cosa che ho sopportato.

Ah, c'era un gatto. E grazie a lui abbiamo imbottito il film di citazioni: Capote e Joyce, giusto per non sembrare banali.

Si sente che il film non m'è piaciuto poi molto? Sì, vero? Ma d'altronde è un film dei Coen e parlarne male non si può. A proposito di Davis? Non pervenuto.

Voto: 5
Davide Mazzocchi

Pacific rim e l’imprinting nagaiano

I tempi erano più che maturi affinché la cosmogonia del mecha approdasse al cinema non in anime ma con attori in carne ed ossa. D’altronde il top della tecnologia effettistica digitale è americano e in America i cartoni di Go Nagai non hanno fatto l’imprinting a generazioni di ragazzini come in Italia. Forse nemmeno l’autore Guillermo del Toro si è reso conto dell’importanza dell’operazione, per lui e per molti commentatori di questi giorni Pacific Rim è solo un nuovo episodio del genere kaiju, ormai da tempo (vedi Godzilla anni ‘90) rivitalizzato da Hollywood. Ma per gli attempati ex (molto ex) bambini italiani anni ‘70/‘80 un film così è un evento epocale: Raleigh e Maku che scendono nella testa di Gipsy Danger sono Actarus che si cala in Goldrake; il gomito-pugno aiutato dal reattore è discendente diretto del “maglio perforante”; la spada che esce dal braccio del jeager è la stessa che il Grande Mazinger si estraeva dalla gamba; il raggio sparato dal petto, beh... “attacco solare, energia!”; e quando un kaiju (ciascuno dotato di nome che nello specifico ora non ricordo, come da insegnamento nagaiano) ha la metamorfosi da anfibio a enorme pterodattilo, si intravede la strada da percorrere per i sequel, con i jeager che come per i mecha di Nagai potrebbero (devono!) evolvere tramite nuovi “giocattoli”, tipo le ali che Mazinga Z non aveva e il suo “upgrade” Grande Mazinger sì. A proposito: qualsiasi etimologia vi trovi Google, jaeger deriva da jeeg, non scherziamo!

Colin McKenzie
Voto 7,5: countdown già partito per dei sequel come si deve.

Pacific Rim - Coppa gelato gusti misti

Il fatto è questo: io di robottoni non ci ho mai capito nulla. Ma prima di insultarmi lasciatemi dire la mai. Negli anni '80 ero un ragazzino parcheggiato felicemente dai nonni tutto il pomeriggio e la prima serata. Su qualche emittente privata, sintonizzata sul canale 17, la sera trasmettevano roba giapponese. Di solito c'erano dentro dei robot, di varie forme e dimensioni. A me francamente non importava molto del tipo di robot, la cosa essenziale era che la trama seguisse quella struttura così collaudata.

  1. Tutti felici e contenti
  2. Mostro in avvicinamento
  3. Combattimento con il robot di turno (invariabile mossa finale)
  4. Tutti felici e contenti (fino al prossimo mostro)
Grazie a questo modo disinteressato di gustarmi i robot, non saprei distinguere il Daitarn da un Gundam o da un (che so?) Voltron. Credo che lo stesso sia successo al buon Guillermo, regista di Pacific Rim. Questi robottoni hanno tutti quello che avevano i loro antenati: un bel minestrone (ma dato il periodo meglio parlare di coppa gelato) gusti misti.
Il film conferma varie idee che mi stanno girando in testa:
  1. Il livello tecnico non è più un problema. I mostri che ho visto in sala sono più plausibili e verosimili di certe facce che mi girano attorno.
  2. La trama conta poco, basta che si parli almeno una volta di ambientalismo e una volta di clonazione (prego vedersi la produzione recente di fantascienza Oblivion, After Earth per dire)
  3. L'impressione generale è sempre quella di trovarsi di fronte a un ottimo mix (meravigliosamente confezionato) di cose già viste e fuori tempo massimo. Qui per dire hanno fatto il mischione tra il Gundam (con una spolverata di Evangelion) e Godzilla.
Ma deve essere chiara una cosa: non è stato affatto male, anzi io l'avrei preferito ancora più "ignorante". Botte da orbi per due ore. Sarei stato certo più contento, a patto che alla fine tutti fossero felici e contenti...

... in attesa della prossima apocalisse.

Voto: 6
Davide Mazzocchi

Star Trek visto da chi non capisce

Ci sono due scene nel film che mi hanno spiazzato. Non tanto per il contenuto ma per la mancanza di qualcosa. Per farla breve:
  1. Scena d'apertura. Kirk e Spock che ne stanno facendo di ogni (ma si può direi in italiano?) sul pianeta di trogloditi e a un certo punto l'Enterprise salta fuori dall'oceano.
  2. Scena verso il finale in cui Spock mena le mani su un mezzo volante a velocità folle e lui e il suo nemico saltano ovunque.
Non trovate che manchino un paio di elementi? Su, fate uno sforzo e pensateci un po'. Lo so che ci state arrivando anche voi. Vi ha stupito non vedere il Millenium Falcon uscire dall'acqua vero? E il fatto che il combattimento fosse a mani nude e senza spade laser. Dai, non fate quella faccia lì, lo sapete che ho ragione e che in fondo nessuno ha il coraggio di dirlo.

Lo dico io allora. Questo Star Trek è tutto ciò che i nuovi Star Wars avrebbero dovuto essere. Ok l'ho detto, liberi di dissentire, ma rispettate almeno il coraggio.

Fatto sta che siamo andati a vedere un ottimo film di fantascienza con continui colpi di scena, con un nemico vero e bello, con l'azione, con le astronavi (e che astronavi!), con la diplomazia, con i personaggi, quelli che piacciono a noi, quelli con lo spessore che meritano. Kirk, signori, Kirk è un ottimo personaggio perché ispira carisma e fiducia. Se lui dice che c'è da andare si va e basta. Spock è ottimo e completa il quadro famigliare. Mi è piaciuto, ma davvero tanto e io di Star Trek non ci capisco nulla. Ma mi è piaciuto così tanto che il suo ricordo è riuscito a farmi sopportare tre ore di Superman, visto subito dopo per la felicità del botteghino, in una serata di delirio collettivo. Ma questa è un'altra faccenda.

Voto: 8
Davide Mazzocchi

After Earth - Boh, non so, non saprei...

Una regola che mi sono imposto è di parlare di qualcosa solo dopo averla capita. Per me After Earth è rimasto un mistero fino a pochi minuti fa, e sono passati quei cinque giorni dalla visione. Non è la trama a mettermi in difficoltà, nemmeno l'ambientazione. La cosa difficile è stata capire il rapporto tra me e il film.

Due episodi: uno appena usciti dal cinema, l'altro il giorno dopo. Ve li riporto così come sono capitati.

Titoli di coda, un tentativo di applauso di qualche buontempone, mi alzo e mi aggrego al coro dei delusi. Con il mio gruppo formo il solito cerchio appena fuori dalle porte del cinema e do inizio alla sessione di commenti. Di solito sono quello più chiassoso e chiacchierone: per me il film è (o crea) un legame emotivo, se tocca le corde giuste, le mie intendo, allora avrà fatto centro. Volano vari aggettivi ed epiteti più o meno amichevoli nei confronti di regista e scrittore (Shyamalan e Smith). Io ascolto e quando gli altri mi guardano per sentire un parere, eludo con un "non so... boh... non saprei."

Il giorno dopo. Siamo in ballottaggio per la recensione. Mi chiedono: "La fai tu?" "Ok, ho un paio di idee per farla. Ci penso su e in serata la scrivo." Le idee sarebbero state queste:
  1. Sfoderare il sarcasmo delle migliori occasioni e svuotare il caricatore con una mitragliata di critiche su tutti quanti, me stesso compreso.
  2. Raccogliere la sfida e trovare tutto quello che di bello il film mi ha offerto, pur scrivendo ben chiaro che il film ha fallito.
La capite la faccenda? Era un altro "Boh... non so... non saprei..." Ma adesso ho capito.

Erano gli anni '80, di certo, e io scrivevo a malapena il mio nome. Non ricordo l'emittente, ma credo che settimanalmente dessero in televisione dei film prodotti dalla Disney per il mercato Home Video. In questi film i protagonisti erano invariabilmente bambini e la struttura della trama era quella classica: Presentazione della situazione, conflitto e presentazione del "cattivo", sviluppo del conflitto, vittoria sul cattivo, grasse risate.

È questa la chiave, ed è per questo che il film ha un che di "già visto", proprio perché la stessa trama l'avrò goduta centinaia di volte seduto nella piazza sinistra del divano (il mio posto storico) davanti alla tivù. Per questo non riesco a cassare il film anche se lo meriterebbe.

Sentite, facciamo così: non gli metto nemmeno il voto (per la gioia dell'editor), ma voi non andate a vederlo, recuperatevi magari un vecchio film Disney, un nipotino piccolo e passate un pomeriggio a farvi due risate e a godervi dei bei ricordi. Affare fatto?

Davide Mazzocchi

Il terzo Hangover fa sempre ridere

C’è sempre un dubbio che attanaglia lo scrupoloso recensore di un threequel, che è il sequel di un sequel, detto anche "triquel" o "trequel": il film va valutato come opera a sé o nel contesto della serie? Chiedete un parere a un amico che ha appena visto un sequel, o un trequel, o un quaterquel (quest’ultimo, pronunciabile correttamente solo da Paperopolesi, è un neologismo mio e me ne scuso). Nel 90% dei casi non darà un parere sul film in sé, e nell’85% tutto ruoterà attorno all’assioma che il film, rispetto al primo della serie, è una ciofeca (o sinonimo più o meno volgare). Spesso il sequel è quello MOLTO deludente. Del trequel invece di si dirà che va beh, non è all’altezza del primo (che resterà inarrivabile), ma è sempre meglio di quella ciofeca del sequel. Dal quatertel in poi si resterà nel limbo del non classificabile, della roba per fanatici di genere.

Per fortuna Una notte da leoni non è una saga fantasy, non è una serie di fantascienza, né di thriller, né di noir, né di azione, né di storia. È commedia, roba leggera, senza ansia da prestazione estetica. Così posso limitarmi a dire che il trequel mi ha procurato delle grasse risate, come speravo, così come mi era capitato per il primo, così come per il sequel. Per le commedie è spesso così, vedi ad esempio la saga di "Amici miei" o di "Brancaleone da Norcia".

La novità, rispetto agli episodi precedenti, sta nell’intreccio, non più incentrato sull’"hangover" post addio al celibato di un gruppo di amici come contesto di una spasmodica indagine a ritroso su cos’hanno combinato sotto l’effetto della "droga dello stupro". Stavolta Stu, Alan e Phil dovranno andare alla ricerca dello scombinato gangster cinese Chao, abbonato ai bagagliai delle auto guidate dai 3 e tra i personaggi più riusciti della serie. Non temete, comunque, quando meno ve l’aspettate l’hangover salterà fuori anche stavolta, e sarà da sganasciarsi. Così come non deluderà Alan, il vero eroe della serie, posseduto dal fanciullino stronzo (altro che Pascoli). Da un possibile ricovero in un rehab, tra dialoghi surreali e spassosi, il nostro arriverà ad incontrare la donna della sua vita. Immaginatene l’identikit.

Voto 7: Per chi apprezza il lato comico dei sensi di colpa post sbronza
Colin McKenzie

La Grande Bellezza è una perla rara


Considero Louis Ferdinand Céline il miglior scrittore del ‘900, ma come citazione iniziale per questo film avrei visto meglio un aforisma Wildiano sull’inutilità della vera arte. Perché "La grande Bellezza" più che un viaggio è una visita guidata da un brillante e attempato giornalista mondano di nome Jep Gambardella a un giardino zoo(antropo)logico allestito dal talentuoso architetto Paolo Sorrentino.
C’è la performer cialtrona e afasica che inconsapevolmente realizza l’ossimoro "bush comunista" (sul come, si rimanda alla visione); c’è la bimba prodigio che se opportunamente maltrattata può trasformarsi in una Jackson Pollock del 2000 e c’è pure il Pollock lanciatore di coltelli; c’è il fotografo facebookaro che espone le istantanee di se stesso dalla nascita al giorno presente. Tutto un bestiario che Gambardella racconta e satireggia per lavoro. Per diletto, oltre a concedersi una casa con vista sul Colosseo (lo spirito dell’ex ministro Scajola aleggia e alla fine si manifesta), la visione riservatissima e ad libitum di capolavori del passato come la Fornarina o semplicemente un’alba meravigliosa, può frequentare quella che una volta si sarebbe chiamata "la bella società", che del medesimo zoo è un ulteriore padiglione che ospita ricche milf milanesi tanto accessibili quanto noiose, madri apprensive di figli schizzati, poeti silenziosi e ossessivamente innamorati di direttrici nane di giornali scandalistici, nobili a noleggio per serate come fossero ex concorrenti di reality, potenti cardinali con la logorrea culinaria, pubbliciste politicamente impegnate dall'enorme ego (meravigliosamente demolito da Jep in una delle scene più memorabili), patetici artisti wannabe di provincia, spogliarelliste attempate e veraci, ex star televisive cocainomani, un padiglione pettegolo, festaiolo e consapevole della propria pochezza spirituale.

Solo la vera bellezza, rara e sommersa sotto il cumulo di vacuità di cui è fatta gran parte della vita, può salvarci. La guida lo trasmette in vari modi ai visitatori dello zoo seduti davanti allo schermo, come nella sequenza della lezione di comportamento ai funerali, lui lo sa da sempre, glielo ribadisce a modo suo una Santa centenaria che si nutre di sole radici. Lo sanno pure le giraffe e i fenicotteri. Lo seppe Jep diciottenne fissando il suo primo amore, al mare. Ogni sequenza, dalla più banale a quella più virtuosistica, trasuda di aspirazione alla bellezza.
Giunto a 65 anni, lo scrittore declassato a giornalista di costume realizza che non ha più tempo da perdere in cose che non gli va di fare. Prendetelo come un consiglio senza età e senza tempo: se non vi piacciono i film in cui l’estetica surclassa l’azione, meglio non andare a vederlo. In caso contrario, non perdetevelo. 

Voto 9. Il grande Cinema si può e si deve fare anche in Italia.
Colin McKenzie