Buried - Sepolto

Buio. Un uomo e la sua bara. Un uomo la sua bara e un telefono cellulare. Una lotta contro il mondo per la sopravvivenza. Questo è Buried.

Film crudo e spietato in cui le massime scene di azione mostrano i tentativi del protagonista di cambiare posizione nella sua tomba (per ben 2 o 3 volte).
Il film non è nient'altro che la preparazione alla grande dipartita. Ma tutto avviene per gradi. Prima Paul urla contro il mondo, lo sfida lo insulta, nell'affanosa ricerca di chi deve dargli la libertà. Subentra la rassegnazione a una morte lenta e spaventosa, la preparazione, appunto, alla dipartita con le telefonate alla madre e alle persone care. Poi le parti si invertono: è il mondo che chiede e ottiene, chiede di tutto e di più ad un uomo ormai sopraffatto e rassegnato alla propria (prematura?) morte. Infine la speranza della liberazione porta il protagonista a combattere fino all'ultima boccata d'aria nell'attesa dei soccorsi che oramai stanno arrivando. Fino all'agoniata libertà (dalla tomba o dalla vita?).

In breve: Film geniale e avvincente, in cui in ogni momento ci si domanda cosa potrà mai succedere ancora in una bara.

Voto: 8
Paolo Delledonne



Missione di pace

Avete mai sognato di comporre una squadra di governo post-rivoluzionario per l’Italia, sottoponendola all’approvazione di un Ernesto “Che” Guevara sonnecchioso e distratto, intento a guardare “Il pranzo è servito” di Corrado in TV? E all’Ikea? Dico: avreste mai pensato di poter isolare col Che l’essenza del comunismo passeggiando pigramente per l’Ikea, scoprendo infine che l’utopia Marxista è un ideale inattuabile grazie a una sedia per ufficio Torbiörn, che senza proprietà privata diventerebbe inutilizzabile, dato che nessuno potrebbe legittimamente sedervisi? Ma soprattutto, se siete maschi, che rapporto avete con vostro padre? Spero non competitivo come quello di Giacomo, il giovane protagonista di questa commedia, figlio pacifista di un capitano dell’esercito italiano, in missione nell’ex Jugoslavia alla ricerca di un criminale di guerra, feroce quanto può essere feroce uno che passa il tempo nei boschi a divorare il cuore degli orsi. Ovviamente, il caso vorrà che Giacomo finirà proprio nel bel mezzo delle operazioni militari, per rompere le uova del paniere paterno.
“Missione di pace” è una commedia grottesca esile esile, che gioca col luogo comune del militare italiano inaffidabile e casinista di salvatoresiana memoria, per ricordarci che nel XXI secolo l’ideologia è modernariato pop, che la guerra non può finire mai soprattutto perché si combatte in famiglia e che l’unico nemico degno di questo nome è se stessi.

Voto: 6,5 lampi di farsesca follia
Colin McKenzie


Underworld: Il risveglio

Questo film ha le stesse aspirazioni di capolavori quali Starship troopers, 10000 BC e Scontro tra titani, solo con più vampiri a popolare il palcoscenico di questa città in fiamme. L'intreccio delle vicende subisce una forte accelerazione di 12 anni portandosi dietro, purtroppo, qualche incoerenza e leggerezza. Le due creature più potenti (Selene e Michael) sono catturate con troppa facilità, mentre la figlia di Selene "invecchia" fino a sembrare una ragazzina di 12 anni. Per esseri immuni al tempo, questa ha tutta l'aria di una forzatura pretestuosa. Così come pretestuoso è tutto il resto del film che consente ai due registi di mostrare sparatorie, inseguimenti e sventramenti tra lycan e vampiri. Delle scene d'azione (confuse e al limite della visibilità umana) due svettano sulle altre: la perdita di controllo della figlia e il tributo che Selene fa ai lungometraggi precedenti, sfondando il pavimento dell'ascensore a colpi di pistola.

Interessante la soluzione del film: non sempre l'essere più forte, ha il predominio, errore in cui è caduto un altro colosso quale Avatar. Dopo aver assistito allo squartamento finale dei due (insulsi) cattivi di questo episodio, l'incoerenza torna a farsi strada nella trama: Michael, ritrovato e scongelato nei laboratori, da buon padre di famiglia abbandona amata e figlia in balia di mostri assetati di sangue. Comportamento strano, quasi sospetto. Ma forse il film non voleva mostrare conflitti interiori, evoluzioni emotive e acrobazie introspettive: si accontentava di ritrarre Selene in quella sua tutina così aderente, e questo è piuttosto piacevole.

Voto: 7 per il viso e per le grazie della Beckinsale
Paolo Delledonne



L'industriale

Quello sguardo di chi trova il coraggio, o la rassegnazione, di guardare in faccia lo spettatore. Quegli occhi vuoti che sono il riflesso della vacuità interiore di chi ha perso tutto e tutti. L'industriale racconta la storia di Nicola, ingegnere e piccolo imprenditore, che lotta contro la crisi economica che si sta portando via tutto, la fabbrica, l'amore, gli amici e l'entusiasmo. Ci mostra la discesa in un inferno freddo dove la più grande tortura sono solitudine e isolamento, prima, e ipocrisia e falsità dopo. Sul palcoscenico torinese gli attori hanno le maschere della moglie, Laura, della suocera, del banchiere, della collega di Laura, del ragioniere, del garagista rumeno. Di questi personaggi non ce n'è nemmeno uno che tenda una mano a Nicola. Abbandonato, tradito e deriso da chiunque, il nostro industriale si trova a lottare per preservare intatto almeno un personale orgoglio, un amor proprio. Ma la tragedia è spietata e si compie con precisione finanziaria.

Ci troviamo di fronte ad un lungometraggio costantemente teso, grave, appesantito nei toni da una fotografia impietosa, ma elegantissima e sottile. Le vite sono mostrate (quasi) senza colori, i toni freddi dominano tutta la pellicola e si appesantiscono con il calare della notte. Il rosso della passione di labbra che si baciano è smunto e logoro. Il cielo è sempre grigio. I volti sono stanchi e sbiaditi, gli occhi affossati. Il commento musicale, affidato a un certo Andrea Morricone, è delizioso ed esalta alcune scene densamente poetiche. Ma sono i dialoghi a dominare la scena, schietti, didascalici, freddi (soprattutto quelli telefonici: "Stasera...? Ceniamo...?" ), sputati in faccia con la rabbia di chi sta soffocando o con la tristezza di chi ha perso l'amore e forse tutto il resto a cui rimane solo la scelta tra ciò che è morale e ciò che non lo è.

In breve: Un film che tratteggia la penosa esistenza di un uomo strangolato dai difetti di un sistema e dalla bruttezza degli animi di chi lo circonda.

Voto: 8
Davide Mazzocchi



La talpa

La seconda guerra mondiale ha sancito il passaggio di testimone, nelle gerarchie mondiali, tra l'Impero Britannico e gli Stati Uniti d’America. Nella Guerra Fredda, il Regno Unito è stato un buon alleato dei cugini americani, abituandosi, suo malgrado, a supportare le schermaglie con l’Unione Sovietica in posizione subordinata. Così anche sul fronte spionistico, dove il "Circus", o MI6, arranca nel tentativo di conquistarsi un ruolo di primo piano. Cinematograficamente c'è la versione lussureggiante della storia incarnata dal fumettone James Bond, poi c'è l’altra faccia della medaglia, quella di questo sobrio e impeccabile film di Tomas Alfredson, che trae da un romanzo di Le Carrè ispirazione per una ricostruzione storica molto suggestiva, che s'inquadra in un filone che Hollywood ha proposto con "The good sheperd".

È una trama fondata sulla beffa, quella di "La Talpa". Altro che James Bond: il Circus inglese è in balia delle trame inesorabilli dei servizi sovietici guidati dal misterioso "Karla", che s'infiltrano ai vertici dell’organizzazione britannica e dedicano agli avversari grassse risate, proprio mentre vengono epurati il vecchio Direttore Control e l'altrettanto stagionato Smiley, interpretato da un solo apparentemente inespressivo Gary Oldman. Il ministero della difesa incaricherà proprio quest'ultimo di indagare, da finto pensionato, sui suoi ex colleghi, lui che Karla l’aveva conosciuto all'inizio delle rispettive carriere, misurandone intelligenza e fanatica applicazione alla causa, e rivelandogli inconsapevolmente il suo punto debole: l’amore per la moglie. Tema questo trattato con una delicatezza, e allo stesso tempo un'intensità, che arricchisce ulteriormente un'opera che funziona su tutti i piani: intellettuale, fotografico, storico, scenografico e attoriale.

Voto: 8 per la mente e per il cuore
Colin McKenzie

Regia: Tomas Alfredson
Script: Bridget O'Connor, Peter Straughan e John le Carré (romanzo)
Cast: Gary Oldman, Colin Firth e Tom Hardy

Trama: 1973, in piena guerra fredda, George Smiley, un ex agente dell'MI6 in pensione, viene incaricato di scovare una "talpa", una spia sovietica che si annida tra i più alti membri dei servizi segreti britannici, suoi ex colleghi. Sembra che il fantomatico capo del KGB, Karla, sia riuscito ad inserire in un posto di comando una talpa, chiamata Gerald. La talpa è riuscita a prendere il controllo dei servizi segreti dopo la morte di Controllo, l'ex capo ormai deceduto di Smiley.
Controllo stesso, poco prima di morire, aveva affidato a Jim Prideaux un'importante missione: mettersi in contatto con un militare ungherese per ottenere il nome della talpa. Ma la missione fallisce con il ferimento di Prideaux e la perdita dell'intera rete spionistica in Ungheria. Controllo perde quindi la faccia, va in pensione e poco dopo muore.
Smiley indaga segretamente e scopre che il Circus è in una posizione difficile. La talpa Gerald ha creato una serie di rapporti, chiamati Rapporti Strega, che altro non sono che mangime (falsi rapporti da scambiare con autentiche importanti informazioni).
Smiley riuscirà a scoprire l'identità della talpa al prezzo della perdita di un amico (e della scoperta che parte dei suoi problemi famigliari sono stati causati dalla talpa stessa).

J. Edgar: il potere di chi sa come raccontarsi


Se negli anni ‘80 l’ancora scalcagnata polizia italiana (no RIS di Parma a quei tempi) avesse adottato i metodi che l’FBI americano utilizzava già negli anni ‘30 probabilmente il mistero del Mostro di Firenze sarebbe stato risolto e ci sarebbe stata qualche vittima in meno. 
Il padre dell’indagine scientifica applicata da un organo di polizia su scala nazionale, oltre che uno degli uomini chiave del ‘900 americano, ci viene raccontato da Clint Eastwood come un omosessuale represso, succube della madre, razzista e ossessionato dal comunismo, ma soprattutto come un machiavellico e abile manipolatore di media e uomini di potere: i primi tramite una maniacale propaganda di se stesso, i secondi tramite dossier scottanti (assurti a vero e proprio mito anche grazie a una cospicua letteratura che va da De Lillo a Ellroy) da usare per restare incollato sulla poltrona che in effetti occupò per 50 anni, fino alla morte, nell’ufficio su Pennsylvania Avenue da dove ha assistito, da mammasantissima, alla cerimonia di insediamento di almeno una decina di Presidenti.

La cura ossessiva e falsificatoria con la quale si sarebbe dedicato alla propria immagine è anche il pretesto per la narrazione, che ruota attorno all’autobiografia che ormai anziano, ma ancora in pista, detta ai suoi giovani sottoposti. Ciò però consente a Eastwood di generare nello spettatore un distacco, quando non repulsione, dal protagonista, prospettiva non frequente nei film di genere biografico, e perciò spiazzante, dove si è abituati al meccanismo inverso dell’identificazione emotiva.
L’Hoover anziano, dal punto di vista dell’interpretazione, è anche una nuova occasione per Leonardo Di Caprio di dimostrare le sue grandi doti attoriali, o, per i suoi detrattori, per tentare di scrollarsi di dosso l’invero lontano cliché di idolo delle ragazzine. Nello specifico, è stato molto apprezzato il trucco dell’invecchiamento, che in realtà non sembra poi così innovativo, dato che ricorda molto (citazione voluta?) quello a cui venne sottoposto 70 anni fa il 25enne Orson Welles per consentirgli di mettere in scena Charles Foster Kane da vecchio.

Link consigliati: 

Voto: 7,5
Colin McKenzie
Regia: Clint Eastwood
Script: Dustin Lance Black
Cast: Leonardo Di Caprio, Armie Hammer, Naomi Watts

Trama: Nel film si affrontano le fasi più importanti di come J. Edgar Hoover modifica radicalmente il metodo e i mezzi investigativi dell'FBI: la narrazione parte con l'ormai vecchio Edgar, che racconta il suo excursus lavorativo da semplice impiegato a direttore dell'FBI. Tutto l'intero film presenta continui flashback, che danno vita alla narrazione di Edgar. Vissuto in una famiglia in cui la madre è autoritaria e il padre è un uomo vecchio e malato, il giovane Hoover è descritto come un giovane il cui unico scopo della vita è fare carriera, mettendo tutto il resto in secondo piano (come si vedrà in seguito, è succube delle decisioni di una madre autoritaria e di un'educazione rigida e conservatrice). Il suo unico obiettivo è difendere la patria da qualsiasi tipo di attacco.


J. Edgar

Ci sono tre momenti durante tutto il film, tre minuscole sequenze, brillanti come stelle su un cielo grigio, monotono e tutto uguale. Un cielo che ha lo stesso sapore di una cronaca, un susseguirsi di episodi che si ripetono, che si specchiano, che rimbombano in sala cullati da monologhi autocelerativi. Tre piccoli momenti che danno un senso all'ultimo film di Eastwood. J. Edgar vestito con l'abito della madre e adornato dalla collana di perle, in lacrime davanti a uno specchio. J. Edgar messo di fronte alla propria frode dall'amico amante malato e stanco. J. Edgar sul balcone che osserva il susseguirsi dei presidenti degli Stati Uniti d'America. Il resto del film è ridondante, sempre uguale a se stesso, piatto. Racconta la storia di un uomo che, preda della sua ossessione e della figura materna, inventa qualcosa di impensabile, da romanzo e che, pur di non perdere ciò che ha creato è capace di bassezze e ricatti. Un uomo potente, ma anche miserabile, che ha condotto una vita sacrificando la felicità al potere, credendo di poter sopravvivere proprio grazie alla grandezza della sua creazione. Un uomo che il regista ci mostra parzialmente, lasciandoci intuire a grandi linee le reali proporzioni della sua figura.

Una biografia, quindi, che vuole raccontare l'uomo con la puntualità della cronaca sacrificando molto della struttura narrativa. Mancano tensione, ritmo, emozione, eleganza e finezza. È tutto plateale, mostrato per quello che è (stato?). Il linguaggio stesso del cinema viene soffocato dai monologhi recitati a meraviglia da un ottimo Di Caprio. Eppure regista e sceneggiatore sanno usare questi strumenti, altrimenti non si spiegherebbero quei tre momenti così belli, punteggiati da silenzi che dicono moltissimo. Scelte. Strane scelte, non ultima quella di non mostrare praticamente mai il rapporto tra politica e polizia, calcando la mano su un'indagine pretestuosa che mostra l'evolversi dell'FBI nei primi anni dell'impero di J. Edgar. A contribuire a questo senso di grigiore, la fotografia essanziale che solo a tratti riesce a farsi strada tra le filippiche del protagonista.

In breve: un punto di vista e uno sviluppo biografico parziali e monotoni, salvati negli ultimi minuti dalle varie morti del protagonista.

Voto 5,5
Davide Mazzocchi