The descendants - Paradiso amaro

Lasciamo stare il titolo. Il film si risolve nei primi minuti, il resto è sviluppo sensato. Quel "credono che qui siamo immuni alla vita" è qualcosa di potente, una verità talmente ovvia che fa fatica a essere accettata. Il "qui" intende le bellissime Hawaii (da cui l'orrendo titolo italiano di Paradiso Amaro: non solo è fuorviante, ma è l'esatto contrario di quello che dice il film, forse il traduttore non l'ha visto).

Il tema centrale di tutto il dramma (presentato senza troppi veli) è il cambiamento. Il Cambiamento con la maiuscola, quello vero, quello che arriva all'improvviso e stravolge tutto. Il Cambiamento che spacca le ossa e cancella le cicatrici. La spinta verso   qualcosa, qualcuno, tutto condito con quello sporco affare che è la vita, con la sua quotidianità, gli atti di vendita e acquisto, i giochi dei bambini al mare, la scuola, l'amore e tutto il resto. Qui il Cambiamento è messo in moto dalla morte. La classica scintilla che fa esplodere tutto ma che non è per niente la fine, solo un momento nella vita di molti altri.

Il film ci racconta, e nel frattempo indaga, molti aspetti della vita di una famiglia distrutta. I personaggi raramente saltano fuori con grandi dialoghi ma piangono e sanguinano parecchio. Si cozzano l'uno contro l'altro lasciandosi addosso brutte ammaccature, ma alla fine vanno avanti, non più trainati dalla quotidianità e dall'incomprensione, ma da ben altro. Non ci sono eroi, dei o anime pure, ma solo persone talmente comuni che potrebbero avere le facce dei vicini di casa (al posto di quella del buon vecchio George, sempre in gran forma). E non è amaro, semplicemente vero, perché il finale, che può sembrare banale e scontato, la dice molto lunga. È la vita. Va così, tanto vale volersi bene.

Voto: 7
Davide Mazzocchi

L'arte di vincere - Moneyball

L'avevo detto che è il periodo dei film biografici. Tra il capo dell'FBI e il primo ministro inglese riesce a farsi strada, sgomitando, questo Billy Bean, ex giocatore di baseball e attuale general manager degli Oaklands Athletics. Un perdente (lo dice anche sua figlia, a suon di musica, accompagnata dalla chitarra ragalatale proprio dal padre) nella pratica, ma un combattente nato. Qualcuno che ha voglia di ribaltare tutto, di mandare gambe all'aria tutti quei vecchi tromboni che pensano di saperla così lunga.

D'altronde c'è da dire che il nostro, con l'acqua alla gola e una voglia matta di vincere qualcosa, ma con pochissimi soldi, si butta a pesce (squalo, nella fattispecie), sul grasso laureato in economia e su quella bella teoria che dà il titolo al film: non l'arte, bensì Moneyball. Facile facile: si mettono tutti i dati di ogni giocatore sulla faccia della Terra dentro a un computer e il baracchino elettronico sputa fuori un numero: quanto il giocatore vale realmente. Dato il punteggio è fin troppo facile comprare i giocatori giusti per i ruoli giusti. Tutto il film è un turbine di trattative, acquisti, contratti e licenziamenti. Non c'è romanticismo, lo sport smette di essere agonismo, dedizione, sacrificio, fortuna. Tutto cessa di esistere di fronte a sua santità la statistica asservita all'econimia.

È proprio di questo che si lamentano i vecchi, ma lo spettatore non può che gioirne. Infatti il regista (un tale Bennett Miller che sa come si fanno i film biografici, vedersi Truman Capote, grazie) prende il punto di vista dei soldi e ci evita tutti quei discorsi appiccicosi fatti negli spogliatoi pre e post partita. Ci risparmia il cameratismo maschile e ci prende a schiaffoni quando le cose vanno male (ma anche quando vanno bene). Inoltre ci presenta personaggi credibilissimi: dei duri che vivono in un mondo fatto da squadre che assomigliano sempre di più ad aziende a cui è consentita la moderna tratta di schiavi. C'è tensione. C'è sempre tensione perché per uno che non conosce il baseball, come chi scrive, la tragedia può essere dietro ogni lancio e la sconfitta è sempre amara. È questo, in fondo, il gusto che ha questo film: amaro. Possiamo anche parlare dell'interpretazione di Pitt (con l'inseparabile sputacchiera) o della fotografia, ma non serve. Ci si alza dalla poltrona meno innocenti e più amareggiati di quando sono partiti i titoli di testa. Ma è un vero piacere, quasi un lusso.

Voto: 8
Davide Mazzocchi

I peggiori nemici degli innovatori sono sempre i suoi colleghi. Una storia paradigmatica, che va oltre lo sport e si applica a tutti i campi del sapere umano. Memorabile il dialogo finale tra Billy Beane e il presidente dei Red Sox.

Voto: 7,5
Colin McKenzie

In Time

Si va al cinema di lunedì, così per cominciare bene la settimana, ignorando che il martedì di festa ha inondato i corridoi, il bar e le sale di bimbi vocianti tutti apparecchiati da mascherine, felici per l'insolito inizio di settimana. Un avventore del bar, travestito da uomo ragno, grazie all'immolazione del proprio orgoglio e della propria dignità, rende migliore la serata anche agli adulti. Da qui in poi è solo discesa.

In Time comincia in ritardo, le luci si spengono e colgono di sorpresa tutti quanti. Ci manca un po' la trafila di pubblicità e quel paio di trailer digestivi che agevolano la visione del film, ma bisogna accontentarsi. Titoli di testa in stile Matrix, con qualche numero al posto delle lettere, per far capire che il regista/sceneggiatore ha colto i modi e i metodi dei nuovi linguaggi, quelli nati sulla rete o quanto meno per stabilire il genere del film. Ma non fa differenza, tanto non c'entra nulla. Moraletta da quattro soldi, ops, quattro minuti. Sì perché qui la valuta corrente è il tempo. Non si capisce chi abbia introdotto questo sistema e perché sia stato accettato, ma è così. Hai da vivere 25 anni gratis, il resto lo devi guadagnare, questa è la regola. L'idea a pensarci è ottima, degna di un Dick, che utilizzava il paradosso credibile come arma vincente per la sua scrittura. E viene in mente anche un buon Dan Simmons e il suo mezzo romanzo (l'altra metà di Hyperion, credo superflua, non l'ho mai letta) sulle molte facce del tempo. L'idea, appunto, rimane ottima, lo sviluppo è risibile.

La trama, della stessa consistenza dell'elio, assomiglia a un Robin Hood con la predica sempre a portata di mano: uguaglianza, possibilità, darwinismo spietato, capitalisti ladri e via di questo passo. Non sbagliata in sè, ma resa malissimo: ramanzine banali veleggiano su dialoghi puntiformi e vuoti recitati da un Justin Timberlake (che giustifica con quel suo viso rude la presenza in sala di molte giovanissime) dotato di ben due espressioni: con e senza giacca, parafrasando un certo Leone. Dramma di cartone e amore di gomma, sembra tutto finto. Qualche colpo di scena c'è, peccato che lo spettatore alla mia sinistra, assopendosi, se li sia persi tutti. Uno su tutti le automobili elettriche (almeno all'apparenza) che fanno lo stesso rumore di un motore a combustione, tutte prive di sistemi di trazione e frenata assistita. Sistemi di sicurezza capillari e totalmente superflui. Banche svaligiate facilmente da due persone armate di pistola, tipo quelle del far west. Soldati addestrati malamente che si accaniscono sui vetri blindati invece di mirare all'ovvia gomma anteriore sinistra. Incidenti rocamboleschi finiscono con il solito graffio da film di quarta categoria. Stile e design di architetture, automobili e abiti eccellenti, ma già visti nel decisamente migliore Gattaca, dello stesso Niccol.

Tempo perso? Certamente investito male, ma alla fine, dopo un film del genere, due risate in compagnia possono sempre raddrizzare la serata.
Voto: 2
Davide Mazzocchi

Una bella idea non basta per fare un buon film.
Voto: 8 (per l'idea), 2 (per il resto)
Paolo Delledonne

Inquietante l'idea di vivere in simbiosi a un cronometro. Una continua maratona contro il tempo.
Voto: 6
Andrea Carratta


Action-distopia abborracciata per i nostri contemporanei indignados, con qualche piccola chicca: "Chi viene dal ghetto è sempre di corsa."
Voto: 5, grazie a questa frase e pochi altri spunti.
Colin McKenzie

The Help - manichini parlanti e altre faccende

Nel giorno di San Valentino, ormai più famoso per le offerte di piani tariffari telefonici che per l'amore, il consueto cineforum propone con entusiasmo pacato The Help (caldeggiato via Twitter anche dalla buona Katy Perry). Basato su un romanzo di Kathryn Stockett, e reinterpretato da Tate Taylor, questo film ha pesantemente sbilanciato la sala verso il lato femminile della platea, che in ultima analisi sembra aver abbastanza gradito il lungometraggio, se non nella sua interezza, almeno nell'insieme delle parti: la bimba bionda che ripete una litania salvavita, la vendetta delle oppresse, la sala da bridge con tè e biscotti.

Siamo a Jackson, Mississippi, capitale del razzismo made in USA nei primi anni '60. La città sembra popolata solo da donne che in un modo o nell'altro incarnano i diversi ruoli di quell'epoca: la scema, la scema cattiva, la scema buona, la scema succube, l'idealista, le cameriere. O almeno questo vogliono farci credere la scrittrice e il regista cercando di creare un punto di vista interessante che purtroppo sfocia in ritratti semplici di personaggi perdibili. Le "cattive" sono dipinte con vocette acute e fastidiose, innaturali, simbolo della donnetta americana tutta casa (leggasi ozio , vestiti svolazzanti e tacchi a spillo) chiesa e ipocrisia, mentre le buone hanno almeno la decenza di comportarsi in maniera più naturale per rendersi credibili agli occhi dello spettatore. Lo scontro è chiaramente sul tema razziale: le padrone contro le cameriere con l'intromissione di una scrittrice in erba intenta a sbarcare il lunario con articoli umilianti. 

L'impianto narrativo è semplice e ancorato a una struttura collaudata già da tempo: sono presenti tutti gli elementi del dramma. Per i più esigenti c'è anche una bella storia d'amore con il consueto malandrino ignorante, che alla prima occasione diventa uccel di bosco per non farsi più vedere (è soltanto uno dei tre maschi presenti nel film, maschi non uomini). Già a metà si intuisce il finale dolceamaro che la sceneggiatura puntualmente non tradirà. Grazie al personaggio di Minny (la Mamy della situazione, addirittura citata) il pubblico viene risollevato con siparietti comici e trovate di un certo impatto gastrico. La cosa che rimane sbalorditiva è la partecipazione della sala alle gesta delle cameriere ribelli. Invece di sottolineare con sdegno la banalità del personaggi e delle situazioni, si nota una crescente partecipazione e approvazione di modi e metodi (lotta senza quartiere tra le mura domestiche a suon di torte e pettegolezzi). Per i tre maschi già citati è doveroso calare il velo della pietà, essi infatti sono ridotti a esseri subumani dalla mera funzione decorativa, economica e a volte riproduttiva, praticamente animali da soma con camicia e cravatta.

Un film dalle grandi potenzialità ridotto a commedietta lacrimosa di cose già viste, già sentite, già fatte.

Voto: 5
Davide Mazzocchi

The Iron Lady

Una persona preda dei propri ricordi può sembrare patetica, ma una persona privata del suo passato non è nulla. Maggie non fa differenza. La figlia del droghiere, il primo ministro della Gran Bretagna, la moglie, la madre, la donna, la figlia, la laureata a Oxford. Nessuna di queste persone può esistere separata dai propri ricordi. Anche quando gli stessi ricordi si ripresentano con la forza dirompente delle allucinazioni che soltanto i farmaci possono ormai tenere a bada. Persone morte, un tempo amate, che tornano a parlare con Maggie nelle ore più buie della notte. Volti carichi di adorazione, stima, odio, invidia, disprezzo. Baci teneri e passi di danza. Un concerto. Tutta materia dei ricordi di Maggie. Della Maggie ormai senile e piegata dalla malattia che un tempo ha ricoperto il ruolo di nocchiere esperto della Gran Bretagna. La dolce Maggie che ama teneramente i suoi figli e che si guadagna il nomignolo Lady di ferro. Maggie che assiste al lento suicidio di militanti dell'IRA, che dichiara guerra all'Argentina e che piange commossa per la dichiarazione d'amore di Dennis. Un groviglio di ricordi e situazioni che cozzano una contro l'altra. Un miscuglio di tempi e di luoghi tenuti in equilibrio su quell'unico punto: Maggie, sempre e solo Maggie.

È un turbine di immagini e generi, questo lungometraggio (arrivato in tempo per il periodo dei film biografici). Tutta la sceneggiatura è un turbine, così come lo è la sua realizzazione. Immagini di repertorio non sfigurano affiancate alle scene del film (piccola perla la scena dell'insediamento al 10 di Downing Street). I tre tempi narrativi si intrecciano in modo piacevole legati per benino dall'ovvio filo conduttore che ci mostra Maggie giovane, matura e anziana. Il dramma balla il valzer con la commedia e i siparietti del marito morto sono piacevoli segni di punteggiatura durante il racconto. Il privato, l'intimo non risulta avulso dal personaggio pubblico, anzi contribuisce a dare la sensazione di interezza.

Anche se la mano viene calcata pesantemente sulla figura umana, la regista ci mostra le gesta più famose di questo primo ministro così inflessibile che arriva, in una delle fotografie finali, ad assomigliare a una specie di divinità pagana nel suo tempio disadorno, abbandonato e prossimo allo sfacelo. Tutto attraverso la meraviglia dell'interpretazione di Maryl Streep che conferma capacità eccezionali nel dar vita a qualunque tipo di personaggio anche solo accentuando un po' l'asimmetria del sorriso di una donna che ha lottato tutta una vita.

Voto: 8
Davide Mazzocchi

Shame: l’apatia dell’uomo qualunque, senza vergogna

Preceduto da dibattiti chic e un morboso interesse quale, mutatis mutandis, quello che dovette aver accompagnato Ultimo Tango a Parigi nei primi anni ‘70, rischiando di condizionarti nella tua facoltà di dare giudizi fondati (e quando al tuo abituale Cineforum ti ritrovi per la prima volta dopo tanto tempo nelle file basse, notando un interessante incremento del tasso di presenze femminili, capisci che qualcosa deve essere accaduto), arriva finalmente nelle sale Shame di Steve McQueen (no, non quello di Vasco. Questo è nero). E c’è da dire che hanno ragione le donne (pare che il dibattito fosse di tipo sessista): il film è bello, appassiona, smuove sentimenti, tanto più forti quanto più, paradossalmente, il protagonista si rivela allo spettatore nella sua totale anaffettività.

Questo film non è un fenomeno modaiolo, è un'opera profonda, pur nella sua semplicità (vedi: estrema sensibilità artistica) tecnica. Mette in scena un disagio che ha a che fare con nevrosi attualissime, ci mostra una Manhattan tanto cupa quanto genuina e realistica, una città come nessun film ha mai avuto la lucidità di raccontare: si può dire che era molto tempo che la Grande Mela non veniva trattata come uno “studio” holliwoodiano distaccato sull’East Coast, come si fa di solito, ma come una città vera. McQueen la reinventa e la rende realmente universale.

“Universale”, pur nelle esperienze “estreme” che vive (forse ma forse meno “estreme” di quel che l’uomo comune ha il coraggio di raccontare pubblicamente), è anche Brandon, il protagonista, apparentemente “malato di sesso”, in realtà incapace, o non interessato, a relazionarsi con l’altro. Vive passivamente il lavoro e il rapporto coi colleghi, e nel tempo libero si lascia guidare, più che dagli istinti, dalle molteplici possibilità che il mondo gli offre per soddisfarli: youporn, prostitute, donne attratte dalla sua avvenenza per una sveltina, non cambia molto. Non conta il suo background (s’intuisce difficile, ma non necessariamente drammatico), non i problemi della sorella, lui è apatico in sé, come l’attore di Somewhere, come l’ex musicista pop di This must be the place, come l’artificiere di The Hurt Locker A differenza di loro, Brandon non vive o ha vissuto esperienze “limite”, non è una “celebrità” o ex tale, è uno di noi. E noi spettatori, seguendolo nel suo aggirarsi tra metrò, ufficio, web, abbordaggi al bar con o senza colleghi, uscite a cena con aspiranti fidanzate, litigi con la sorella, ci specchiamo in lui più di quel che, uscendo dalla sala, siamo disposti ad ammettere.

Voto: 9
Colin McKenzie

Hugo Cabret: Scorsese fa il Méliès del 3D


Se i fratelli Lumière furono fin da subito unanimemente riconosciuti come gli inventori del cinematografo in quanto macchina (complice un provvido brevetto), non è mai stato sufficientemente celebrato colui che inventò il cinema come arte, realizzandone per primo le potenzialità narrative. George Méliès era presente, il 28 dicembre 1895, alla prima dimostrazione dei Lumière, e da illusionista di successo qual era, ne capì subito le potenzialità espressive, iniziando una frenetica attività ventennale che lo rese il più popolare cineasta degli inizi. Strategie commerciali ingenue e Grande Guerra, oltre che uno stile ancora rozzo (le scene dei suoi film erano quadri statici giustapposti; il montaggio serviva solo a far “sparire magicamente” gli attori), ne decretarono il fallimento e l’oblio.

Non appare un caso, dunque, che Martin Scorsese abbia deciso di sperimentare il 3D proprio con un film meta-cinematografico su questo controverso precursore. Da Avatar in poi si è riaperto il dibattito su cosa il 3D possa aggiungere alla settima arte, se sia solo un orpello fine a se stesso o se possa aprire orizzonti artistici finora mai pienamente esplorati. Ma il 3D di Hugo Cabret non offre molti momenti estetici realmente significativi: il disegno che, tra i molti svolazzanti nella stanza, si schiaffa sotto gli occhi dello spettatore; Méliès che nella scena finale, da provetto mago, incombe dal palcoscenico direttamente sugli spettatori. Ma resta l’impressione che il 3D IMAX sia ancora nella sua fase “Méliès”, fatta di trucchi ottici fini a se stessi, e che sia ancora da venire l’avvento dei Griffith, degli Eisenstein della situazione; in poche parole, dei fondatori di una grammatica potente e funzionale, in grado di esaltarlo. Ammesso che arrivino.

Altro curioso paradosso: per celebrare un autore giocoso e amorale come fu Méliès si mette in scena un intreccio di classica scuola pedadogica anglosassone, dickensiana. L’orfanello nascosto alla stazione parigina (non poteva che vivere tra treni in arrivo il protagonista di un film sul cinema delle origini), precocemente costretto a mettere a frutto il suo talento da orafo, oltre che a guardarsi dall’accalappia-ragazzini destinati all’orfanotrofio, è un pretesto narrativo che riesce a creare il pathos che serve a generare nello spettatore il desiderio di conoscere la storia del cinema senza cadere preda di noiosi cinefili.
Resta comunque un lieve retrogusto di “freddezza”, di “innaturalezza”, che forse ha a che fare con la morale del film, più volte ribadita dai protagonisti: il mondo è una grande macchina, come il cinema. Come l’uomo. In questo senso, però, la scena dell’incubo di Hugo che scopre, togliendosi i vestiti, di essere diventato un automa come quello di Papà Georges, è probabilmente, se non quella più spettacolare, la più potente, emblematica e attuale del film. E funziona benissimo anche senza 3D. 

Voto: 7
Colin McKenzie