Di nuovo in gioco

È andata così: io volevo andare a vedere Cogan, ma poi l'influenza mi ha piegato in quattro. Alcuni giorni di reclusione e spremute d'arancia in un limbo fatto di ottimi libri e febbre alta. Così Cogan, unica proiezione al cineforum, se n'è andato, ma questa è un'altra storia. Appena ripreso decido per una serata fuori, tanto per ricordarmi che odore ha l'aria. La scelta è Alì ha gli occhi azzurri, italiano, con intenti precisi di analisi di certe situazioni sociali. Credo.

La serata l'abbiamo organizzata a metà: delle due abbiamo indovinato il titolo e sbagliato l'orario. Quando ci siamo presentati inn biglietteria, il film veleggiava verso il suo secondo quarto d'ora. Colpa nostra (mia, soprattutto) e del fidarsi della consuetudine. Con le scelte ridotte all'osso, abbiamo evitato il cineantipasto (preludio di una serie di cinepanettoni tricolori), è rimasto solo il film con il vecchio.

Tutti sanno che io Clint Eastwood non lo amo particolarmente, e parlo di entrambi i lati della cinepresa. Però questa volta non mi è dispiaciuto. Fa la parte del vecchio burbero con qualche acciacco e un po' più tenero del solito. Certo non una cosa originalissima, ma almeno piacevole. Il film parla del baseball, in qualche modo, del rapporto con la figlia, troppo letterale, con colpo di scena finale che in fondo non aggiunge molto al ruolo di genitore come personaggio.

Commediola agrodolce e prevedibile che però ha salvato una settimana partita male sotto ogni aspetto possibile e immaginabile. Decisivi i commenti dei vicini di poltrona.

Voto: 6
Davide Mazzocchi

Amour

L'unica vera, indiscutibile e devastante domanda che strangola lo spettatore una volta uscito dalla sala è: questo è amore? Mentre si tira in ballo la vita di una coppia attempata, la figlia con una relazione instabile, la musica che scorre dalle mani di un pianista emergente, la quotidianità del cucinare uova à la coque, la malattia e infine la morte. Mentre tutto questo danza sullo schermo, la domanda diventa sempre più pesante. Non importano la trama, la tecnica, la narrazione, ma sono la vita e la morte a prendere il posto dei protagonisti. E infine l'amore (se questo è amore).

C'è amore nei dialoghi che aprono il film (stupendi), così come nel monologo finale. Non nella sostanza, quanto nei toni. Però, nonostante sia stato testimone della storia di Georges e Anne, faccio fatica a digerirla. La cosa che sconvolge è la cronaca di una discesa verso la morte, la testardaggine del marito nel non "lasciare andare" l'amata, quando è chiaramente l'unica cosa da fare. Ma proprio per la mancanza di razionalità si deve dare tutta la colpa la cuore e non alla mente. Amore quindi. Ma amore per chi? Per se stessi? Per la vita? Per un'altra persona? Il regista non lo dice, però decreta qualcosa di intenso: l'amore può essere l'inizio, ma anche la fine di tutto.

Voto: 8
Davide Mazzocchi

Pietà, ovvero Cheonggyechon Style


Mentre il mondo balla al ritmo di Psy che celebra e sfotte il lussureggiante e cafone quartiere di Gangnam a Seoul, a Venezia si premia Kim Ki Duk e il suo Cheonggyechon Style che della hit di Psy costituitsce il terribile, cupo e monocorde controcanto. Ma alla fine, il sempre quello: i soldi e la denuncia dell’effetto che fanno. 
Il quartiere di Cheonggyechon è un agglomerato di officine sgarrupate che sta per essere raso al suolo, probabilmente il suo futuro è Gangnam style. Ci lavorano dei piccoli, spesso pavidi e ridicoli, artigiani, un polo della meccanica che la crisi e anche una certa incoscienza spinge nelle mani degli strozzini. L’esattore è il protagonista, un “diavolo” spietato e privo di emozioni, che non concede proroghe e storpia e mutila le persone con la stessa indifferenza con la quale si affetta un’anguilla o si tira il collo a un pollo.
Se dovessi valutare questo film per come articola e intesse il tema della vendetta, mi limiterei a preferire l’Old Boy di Park. Ma non è la vendetta il tema principale, è il materialismo inteso come completa dissoluzione dello spirito nel corpo, o meglio nella carne, che sta sempre al centro della scena, straziata, affettata, scambiata per soldi, mangiata, grondante sangue o umori. Fuorviante vedervi la solita ideologizzata denuncia del capitalismo. Più corretta una nuova declinazione del nichilismo.

Voto 7: Il Kim Ki Duk anni 00 era meno disperato e lo preferivo
Colin McKenzie