Hysteria

L'epoca è quella vittoriana, i temi sono più attuali, la ricetta comprende un po' di innocente volgarità, qualche cenno storico, un pizzico di medicina, personaggi interessanti e molte risate. Nonostante all'apparenza questo film possa sembrare scontato, la realtà è ben diversa. Scriverne la recensione riducendo tutto alla commedia piccante è sbagliatissimo, restano infatti alcuni nodi di non facile soluzione.

L'ambientazione è quel tumultuoso tardo '800 denso di scoperte in tutti i campi, medicina inclusa. L'isteria, che dà il titolo al film, è effettivamente l'etichetta con cui erano bollate una buona parte di condizioni che la psichiatria definirà meglio in seguito. Il dottor Mortimer Granville, inventò per davvero il vibrante oggetto che pare dar sollievo e serenità alla mente femminile. Dati di fatto che fanno da sfondo a una vicenda ricca di personaggi simpatici: la cameriera-puttana (gran bel simbolo di quello studio medico così singolare), l'attempato dottore, la ragazza docile e pura, la figlia rivoluzionaria e vagamente socialista, il giovane dottore e tutta la schiera di variegate pazienti più o meno isteriche. I punti saldi della commedia sono anche rispettati: abbiamo la storia d'amore, un minimo conflitto interiore (tra carriera e pietà umana), il momento triste in cui tutto sembra andare male, il lieto fine e moltissimi siparietti comici. Eppure, c'è qualcosa che non convince del tutto.

Il film, che parla sì dell'invenzione dello sfregafemmine, così definito direttamente da Rupert Everett, ma sotto sotto tenta anche di farci notare qualcos'altro: la condizione della donna. Perché nel 2012 si sente il bisogno di portare all'attenzione di tanti l'eterna diseguaglianza tra i sessi? Perché in fondo non siamo nemmeno lontanamente civilizzati e ricordarlo, di tanto in tanto non fa male. Oppure la regista ha voluto semplicemente rinfrescarci la memoria in modo scherzoso su quanto succedeva in quel tardo '800 inglese? Rispolverare il tutto non fa mai male, in effetti. Ne sarebbero la prova le note più o meno storiche appena prima dei titoli di coda. Qualunque sia stato lo scopo, il modo scelto è una serie di invettive da parte di Carol. Modo molto diretto e forse privo di quella finezza che questo film avrebbe meritato.

In fondo rimane il dubbio che non si volesse parlare di temi altisonanti e fortemente impegnati, ma che semplicemente si volesse far fare una bella risata a tutti e far passare l'idea che è il buon umore il vero vibratore di questi anni.

Voto: 7 con piccante leggerezza
Davide Mazzocchi

Total Recall - Teaser

The Raven: la faccia noiosa del giallo


Da ammiratore di Poe: film bellissimo, entusiasmante, conturbante, ricco di citazioni e colpi di scena.
Peccato solo, che nella mia beata ignoranza, non sono un ammiratore di Poe, e la sua raccolta completa è ancora a prendere polvere sulla mia scarna libreria. Peccato solo che il protagonista, all'inizio simpatico, letterato sbruffone senza vergogna, diventi quasi subito un serioso detective, liquidando così un inizio frizzante. Peccato solo che in un thriller il cattivone di turno abbia a disposizione illimitate risorse, infinite abilità e un'enorme dose di fortuna. Tutte cose che gli permettono di costruire un gigantesco pendolo/ghigliottina, a rapire la bella di Poe sotto gli occhi di tutti a una festa in maschera affollata di poliziotti, a non essere colpito da quella ventina di proiettili sparati contro di lui. Più che un omicida assomigliava di più a un mini "boogeyman" in carne ed ossa. Peccato solo che l'abilità investigativa di Poe e del super detective che lo affianca non permettano loro di avere l'intelligenza necessaria a individuare il cattivo fino all' ultimo minuto: il poeta deduce che il killer è un giornalista da un insignificante particolare e non capisce che quello che ha inseguito, correndo, per tutto il film non può essere il vecchio panzone obeso!

Voto: 4 Non un triller, un tributo a Poe.
Paolo Delledonne

The Raven

"L'immaginazione non è un delitto." E se lo dice Edgar Allan Poe, deve essere per forza così. Però bisogna ammettere che tutto sommato ha ragione, anzi, l'immaginazione è probabilmente quella cosa meravigliosa che ci distingue da altri animali. Un discorso che ha le sue basi in Borges, ma che può essere ampliato benissimo a tutto il mestiere dello scrittore.

L'Ottocento, dunque, ancora una volta sul grande schermo con una rivisitazione di uno degli scrittori più famosi da parte di questo James McTeigue, conosciuto per la buona trasposizione dell'ottimo quanto cartaceo V for Vendetta. In questo caso il regista non si limita a trasporre un racconto ma va oltre e ci mette un po' del suo, concependo una trama non troppo originale. Poe, tornato a Baltimora con l'intento di accasarsi con la bellissima Emily, viene coinvolto suo malgrado nelle indagini su una serie di omicidi basati sui suoi racconti. In definitiva colui che ha esplorato con l'immaginazione (quel diritto che si arroga già all'inizio del film) le bassezze della mente umana e il grottesco della vita, si trova a combattere contro qualcosa che lui stesso ha creato. È un combattere un po' contro se stessi, o almeno contro quel senso di colpa che si ingigantisce sempre di più.

Nonostante la trama non troppo originale, non mancano le finezze. Il film, che fatica a decollare, trova un suo ritmo verso la metà e nel finale gioca il jolly diventando piacevolmente ciclico: e se anche questo fosse tutto un racconto? Un racconto nel racconto (come il sogno nel sogno di Inception). Il racconto come movente e come obiettivo: forse un tributo al mestiere dello scrittore e alle sue varie sfaccettature. Infatti vediamo un Poe misero, dedito all'alcol, arrivato al capolinea della sua carriera e della sua creatività. Un uomo che è costretto a vendere la propria arte a un mondo che apprezza più che altro cialtroni (idea che condivido pienamente), una persona finita trascinata avanti soltanto dalla necessità di far sopravvivere il proprio amore per Emily. Uno scrittore che, nonostante tutto, riesce a concepire ancora parole immortali. Nel film si cita anche il Macbeth così per gradire e magari non è proprio un caso pensando alle parole immortali.

Chi si aspetta (dato il trailer) qualcosa a metà tra il recente Sherlock Holmes e il meno recente Vidocq potrebbe anche restare deluso. Certo il film non è un capolavoro, ma rimane piacevole per ambientazione, personaggi e citazioni. Unico dubbio rimangono i dialoghi un po' ampollosi, forse il risultato di una traduzione non troppo felice.

Voto: 6,5
Davide Mazzocchi

Gli Sfiorati

Il teatro è una Roma soleggiata e variopinta, la tragedia che va in scena è la famiglia. Quello che in un primo momento sembra uno scivolone, la canzone di Ramazzotti che nel finale si porta via l'amarezza e fa tornare il sorriso, può essere invece letto proprio come il riassunto di tutto il film: la famiglia che va a rotoli, che non esiste, che si spacca in piccoli pezzi e si lascia dietro soltanto persone distrutte.

Il film parla di Méte e Belinda (fratellastri) e della loro famiglia, distrutta e ricomposta, degli amici di Méte, uno separato e l'altro donnaiolo, del padre di Méte, vedovo e novello sposino con l'amante di sempre. Tutti esempi di rapporti tra uomo e donna ampiamente accettati dalla società moderna che oltre a generarli crea l'ambiente ideale per la loro proliferazione. La società quindi si becca ancora una volta una bella critica. L'abbiamo visto in Shame e prima ancora nell'italiano L'ultimo terrestre. E la cosa fa pensare parecchio ricordandosi che questo film è tratto da un romanzo degli anni '80, come a dire che in trent'anni non è cambiato nulla, o comunque non c'è stato alcun miglioramento.

Un occhio di riguardo va dato alle figure maschili e femminili. Le ultime, forse il simbolo migliore della famiglia, ne escono massacrate. Madre morta (non mi sembra un caso) e matrigna viva e vegeta, simbolo del più bel surrogato su questa Terra. Moglie che chiede il divorzio, gettando così all'aria tutto quanto. Figlia sociopatica e dedita alla superficialità delle cose che capitano. Donna travestita da vedova nera che nutre la propria solitudine con l'eventuale maschio di una notte. Maschio che in parte sostiene il ruolo positivo di padre e lotta strenuamente almeno per questo. Tutto già visto e sentito? Purtroppo sì, è questo il guaio. Il cinema ci ripropone qualcosa di troppo attuale che fa pensare con profonda amarezza. Forse l'unica soluzione, per non sprofondare, è proprio cantare a squarciagola per riempire il silenzio che c'è dentro.
Voto: 7,5
Davide Mazzocchi

Una piacevole sorpresa che ravviva il panorama non particolarmente esaltante del cinema italiano di questi anni. Matteo Rovere riesce a trasporre il romanzo di Veronesi conferendo all'intreccio fragranza e brio. Dopo molte palline rosse con il "no", arriva il "sì" degli "Sfiorati".
Voto: 7,5
Colin McKenzie


La vita che appare tanto semplice e scontata all’apparenza nasconde sempre tra le "righe" qualcosa di più difficile da decifrare. È più facile raccogliere l’acqua di un bagno allagato "sfiorandola" con una tazzina da caffè che cercare di capire cosa gira nella vita delle persone.
Voto: 7
Flower

The Woman in Black

Dopo lo sdoganamento di vampiri glamour, licantropi scienziati e zombie innamorati con il fisico da centometristi, l'unica icona horror a mantenere una certa credibilità e una buona sostanza rimane il fantasma che riesce a sfuggire alle grinfie di questo scempio iperglicemico. Ce lo dimostra l'ennesima revisione di The Woman in Black. Già romanzo dei primi anni '80 è stato portato in televisione qualche anno più tardi per approdare poi sul grande schermo.

È un periodo un po' così, quello che stiamo guardando passare in sala: film biografici (ne abbiamo fatto il pieno), film storici e riproposizioni di creazioni d'altri tempi. Albert Nobbs, per cominciare, e qualcosa del vecchio Burroughs per chi ama il fantastico. L'impressione è quella che si sia già detto e scritto così tanto che forse è il caso di fermarsi un momento a rileggere. Proprio The Woman in Black è l'esempio eclatante della rilettura della più scontata tra le ghost stories in circolazione. Ingredienti per la crostata al fantasma, ricetta classica: casa impestata, fantasma ossessionato da qualcosa di incompiuto, meglio se una vendetta, bambini morti, giovane avvocato (con un grande dramma famigliare), villaggio di ignoranti vicino alla casa già mescolata nell'amalgama, pochissimi colori, musica tesa e una scimmietta meccanica. Tolta la scimmia,  questi ingredienti hanno dato vita a un milione di ghost stories tutte uguali dal 1800 a oggi.

È esattamente questa la chiave del film e chiaramente il suo scopo: riproporre qualcosa dal sapore classico, inconfondibile, che ha già penetrato tutti quanti con letture giovanili ambientate in vecchie case (rigorosamente inglesi), ma farcito di quella tensione che lo spettatore di un film di genere si aspetta, oggi. E in questo il regista ha fatto un lavoro incredibile. L'ambientazione è assolutamente fantastica, la musica perfetta, i personaggi adeguati. Ma dove il regista dà il meglio di sé è nello spaventare a morte chiunque con trovate da buontempone scafato. Nessuno in sala si è astenuto dal gridare, le file di poltrone scosse dagli improvvisi balzi di tutti noi. Si arriva anche a ridere, a insultare il regista per le idee che mette in scena, per il cuore in gola e il fiato corto. Si pensa addirittura che tutto questo non sia reale, che è solo un complesso gioco di specchi e che in fondo i fantasmi non esistono. Poi la tensione cala e la narrazione riprende il sopravvento portandoci verso un finale classico e annunciato.

La forma prende il sopravvento su tutto il resto e decreta la riuscita di questo film che strappa di dosso a Radcliffe i panni del maghetto occhialuto e che fa perdere una notte di sonno ai più teneri. Nessuno guarderà più una scimmia meccanica con gli stessi occhi, garantito.

Voto: 8
Davide Mazzocchi

War Horse

"Ci sono grandi giorni e giorni insignificanti, la maggior parte sono insignificanti e di cui non importa molto a nessuno, ma questo, beh questo è un gran giorno." Lo dice il padre, lo ribadisce il figlio e lo conferma il regista. Ieri sera non è stata una di quelle sere da ricordare. La proiezione di War Horse non ci ha lasciato molto, deludendo anche il pubblico femminile equipaggiato con grandi fazzoletti per l'eventuale lacrimuccia.

La storia che ci propone Spielberg è almeno antica e parla del legame che può crearsi tra un uomo e un animale. Un legame che può valere una vita. Già John Griffith Chaney (alias Jack London) l'aveva esplorata tempo fa. Il film la ripropone in chiave Grande Guerra con il tentativo interessante di ancorare il punto di vista all'animale, proprio come fece il nostro buon Jack con i suoi cani e lupi. Grazie a questo grazioso escamotage, il vecchio Steven riesce a mostrarci un conflitto dalle molte sfaccettature e da numerosi punti di vista (inglese, tedesco, per quanto riguarda le fazioni e francese per la parte civile). Il risultato purtroppo è stancante e il film assomiglia molto a una sequenza di situazioni seppur molto ben realizzate (la fotografia è notevole, sempre e comunque).

Il collage visivo non ha mordente. Prevedibile nella trama generale con colpi di scena preparati ad hoc per spettatori primitivi, denso di quell'atmosfera buona buona che preclude la presenza di personaggi realmente cattivi o almeno un pochino stronzi. C'è da dire che alcuni pezzi di questo pittoresco collage sono realizzati davvero benissimo. La Somme, presentata in Una lunga domenica di passioni come un campo di margherite, ha l'aspetto di una palude trafitta da piante morte e seminata di corpi putrescenti e irriconoscibili, senza colore o fazione. Bella la cavalcata nel filo spinato. Appena decente il dialogo (tra i tanti perdibili) tra l'inglese e il tedesco, buono negli intenti ma maldestro nella realizzazione: i cavalli (così come le persone) non sono fatti per fare la guerra, ma per correre liberi. Quindi, viene da pensare che far tirare un aratro (snaturando il cavallo) è paragonibile a farlo combattere, ma ampiamente accettabile.

Certo il film ha i suoi pregi: uno su tutti è l'enorme distacco da un film di guerra "tradizionale", proponendo una visione molto più ampia e super partes. La favola (sì, perché si deve giustificarlo così) alla Spielberg è troppo zuccherina anche per chi voleva farsi un pianto in santa pace.
Voto: 4
Davide Mazzocchi

Se vi aspettate un bel film, andate a vedere altro. La prova d'attore del cavallo avrebbe rivaleggiato ad armi pari con Dujardin e Streep, ma forse per gli Academy Awards è troppo.
Voto: 4
Alberto Arpini


L'interpretazione esemplare degli artisti che impersonano Joey e Topthorn vale la visione di tutti i 146 minuti. L'espressività dei cavalli è disarmante.
Voto: 5,5
Aliena B.

The Artist


George Valentine è un artista perché sa mettere a frutto un talento che combina bella presenza e doti mimiche, sfornando per il pubblico della nascente arte cinematografica raffiche di polpettoni di avventura appassionanti e di enorme successo. Ma siamo negli anni ‘20 e l’arte cinematografica è una “nuova tecnologia” ancora in grande evoluzione, e quando le major fanno l’upgrade al cinema 2.0, aggiungendo l’audio al video, il talento fino a quel momento apprezzato e funzionale diventa improvvisamente ridicolo e desueto.

Il viale del tramonto di Valentine è dietro l’angolo e a differenza di Norma Desmond lui non ci mette molto a capire che è finita, basta un ultimo film, autoprodotto, che fa flop mentre nel teatro accanto la gente fa la coda per assistere all’ultima commedia della nuova star Peppy Miller, solo un paio d’anni prima misconosciuta (e innamorata) fan da lui cooptata fra le comparse. Ma nonostante l’ubriacante successo, Peppy non si dimentica di chi l’ha scoperta...

Per qualche misteriosa congiunzione astrale il 2011 è stato l’anno della celebrazione del cinema delle origini, e Hollywood ha gradito tramite gli Oscar. Dopo Hugo Cabret col suo Méliés dimenticato, arriva questo omaggio all’essenza del cinema, e cioè l’immagine che si fa racconto, imponendo allo spettatore ultrascafato del XXI secolo una specie di rieducazione. La scena iniziale è una specie di camera di decompressione in cui i sensi si riabituano al linguaggio delle origini, dove muti sono sia il film che il pubblico che vi assiste. In più di un passaggio il disagio di Valentine per la nuova tecnologia viene felicemente reso rappresentandolo come una specie di disabile della parola, fino al clou dell’inverosimile incubo in cui si accorge con orrore di udire dei suoni, come fossero presenze disumane.

In questo senso il vero “artist” è Hazanavicius, per la sua capacità di ricreare atmosfere chapliniane, come in un falso d’autore. Quel Chaplin che subì con sospetto l’avvento del sonoro e che in Luci della Città riuscì allo stesso tempo a snobbare la possibilità di introdurre il dialogo e ad usare i suoni per aggiungere valore al suo capolavoro. Continuando a mietere successi.

Voto: 8, Rieducativo.
Colin McKenzie

Un delicato balletto a cavallo di una voragine tecnologica, raccontato con grande stile.

Voto: 8
Davide Mazzocchi